Capire il concetto di Decrescita

In Italia si parla di “Decrescita”, intesa come corrente di pensiero, da almeno un decennio ma solo nelle ultime settimane l’abbinamento di questa parola all’aggettivo “Felice” è entrato di forza nel lessico politico. Tutto ciò grazie al sorprendente risultato elettorale del Movimento 5 Stelle, che ne ha fatto propri alcuni punti. Non che idee simili o addirittura uguali a quelle proposte da Grillo, non siano presenti nei programmi di altre forze politiche (penso all’estrema sinistra parlamentare), ma nessuno mai aveva fin quiavuto il coraggio di utilizzare apertamente, in un programma elettorale, il termine “Decrescita”. Comunque sia, oggi finalmente se ne parla. Tuttavia nel dibattito che ne è scaturito, per faziosità o per ignoranza, la Decrescita è stata definita nei modi più disparati ed imprecisi. Senza poi contare che i media spesso hanno cercato di parlarne con il chiaro intento di evidenziare i punti di debolezza, oppure per descrivere la Decrescita come un’idea bislacca coltivata da brizzolati figli dei fiori. Ritengo siano sostanzialmente tre i modi per parlare in modo impreciso di Decrescita.

Il primo è il “Metodo Carfagna”. Mara Carfagna, ex-ministro della Repubblica, nel corso di una puntata di Servizio Pubblico condotta da Santoro, ha definito la Decrescita una sorta di ritorno ad una condizione agreste-bucolica“, come se i decrescentisti volessero tornare al Medioevo o all’età del ferro. Questo primo “metodo” basa tutto il ragionamento sulla ridicolizzazione. Descrive i decrescentisti come dei nostalgici della vita magistralmente descritta da Ermanno Olmi ne “L’albero degli Zoccoli“. Pur auspicando il ritorno di alcuni dei contenuti del film (come l’autoproduzione e il senso di comunità), garantisco che questa sera non siamo arrivati con il calesse e non auspichiamo che i lavoratori siano costretti a tagliare un’albero per ricostruire gli zoccoli che servono ai propri figli per andare a scuola.

Il secondo è il “Metodo Trento”. Sandro Trento, docente di Economia all’università di Trento, in un articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano” commette l’errore più comune, confondendo la Decrescita Felice con la decrescita che caratterizza l’attuale periodo di crisi economica, di impoverimento e di depressione dei consumi. Come dicevo questo è l’errore più diffuso anche tra la gente comune che crede di vivere la decrescita perchè subisce un’improvvisa e importante riduzione di consumi, obbligati dal momento di crisi. Mi permetta però il prof. Trento di manifestare la mia incredulità difronte ad un docente di Economia che, conoscendo sicuramente le basi economiche della Decrescita Felice, commette un così banale errore.

In fine c’è il “Metodo Feltri”. Sempre su “Il Fatto Quotidiano” il giornalista Stefano Feltri (che già si era distinto in passato per le critiche alla decrescita) ci spiega che i decrescentisti commettono un errore imperdonabile in quanto affrontano i temi legati all’economia con un approccio etico e non scientifico (come se l’economia fosse una scienza esatta) e rincara la dose facendo chiaramente intendere che l’economia è un argomento per soli esperti e solo a questi è riservata la discussione. Detto ciò, Feltri, parla di Decrescita circoscrivendola ai gruppi di acquisto solidali e all’orto dietro casa al posto del supermercato. Feltri non entra nel merito delle proposte della Decrescita e chiude il dialogo con i decrescentisti in quanto non considerati all’altezza della discussione. Varrebbe la pena ricordare a Feltri che Serge Latouche è un economista come lo era Nicholas Georgescu-Roegen padre della bio-economia che è alla base della Decrescita. In fine mi sia permessa una battuta: se in questo periodo storico stiamo vivendo l’esito delle teorie economiche sviluppate da esperti che si sono approcciati ai problemi con criteri scientifici, forse varrebbe la pena affrontare le nuove sfide con un rinnovato spirito etico.

Esistono altre firme che si sono cimentate nello scrivere di Decrescita, rientrando perfettamente nelle tre categorie citate. Vorrei elencarle con le relative testate per evidenziare la trasversalità dell’incomprensione mostrata verso questa corrente di pensiero: Nicola Porro su La7, Antonio Pascale sul Corriere della Sera,Giuseppe Turani su Il Quotidiano Nazionale (1),  Camillo Langone su Libero,  Francesco Maria Del Vigosu Il Giornale, Massimo Bocuzzi su L’Unità e Roberto Mania su Repubblica. Tutti ingranaggi di un complicato sistema che porta ad una sistematica disinformazione a carico della Decrescita.

Non stupirà quindi che anche tra noi normali cittadini sia imperante la confusione. Confusione che nasce anche dal termine dato a questo progetto politico, economico e sociale. Nell’immaginario collettivo la parola Decrescita rievoca qualcosa di negativo, ricorda la riduzione di un bene necessario. Avremo modo di sfatare questa credenza popolare. A questo si aggiungono alcune banali incomprensioni sull’interpretazione di alcuni principi che caratterizzano la Decrescita. Errore di interpretazione che comettono, ad esempio, coloro che riducono i propri consumi, per questioni etiche, mantenendo però una valutazione positiva di ciò a cui  hanno rinunciato.

E chiaramente tutto questo non è la decrescita.

Ma cos’è quindi la Decrescita? E soprattutto, può essere la strada per uscire dalla crisi economica, sociale ed ecologica che attanaglia il nostro Paese?

Per aiutarci a capire la teoria, utilizzo la pratica applicata al mio settore, quello agricolo-alimentare. Secondo uno studio commissionato dalla FAO (Global Food Losses and Food Waste), circa un terzo del cibo prodotto ogni anno per il consumo umano – grosso modo 1,3 miliardi di tonnellate – va perduto o sprecato. Ogni anno i consumatori dei paesi ricchi sprecano quasi la stessa quantità di cibo (222 milioni di tonnellate) dell’intera produzione alimentare netta dell’Africa sub-sahariana (230 milioni di tonnellate). In aggiunta, la situazione dei produttori europei è dichiarata ormai insostenibile e ogni anno, puntualmente, si decide per esempio la distruzione di massa di pesche o degli agrumi in Sicilia, mentre i produttori francesi manifestano il loro malcontento distruggendo i carichi di frutta importati a prezzi irrisori dalla Spagna (source). Nel frattempo i media ci raccontano che dobbiamo andare avanti con la ricerca sugli OGM per creare specie più produttive, al fine di sfamare tutta la popolazione mondiale! La verità forse è altrove: siamo nel bel mezzo di una fase storica di sovrapproduzione di merci che non riesce ad essere assorbita dalla domanda, perché aumenta la produttività degli impianti e diminuisce la capacità di spesa delle popolazioni “ricche”.

In 40 anni, il PIL aumenta del 350%, la popolazione del 16.5%, gli occupati dello 0.5%. Dal 1960 al 1998 in Italia, il Prodotto Interno Lordo (cioè l’indice internazionale che misura l’entità in valore dello scambio di merci all’interno di un paese) si è più che triplicato, passando da circa 424 mila miliardi di lire a circa 1 milione e mezzo di miliardi di lire. Nello stesso periodo la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16.5%. Il numero degli occupati però, è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998). Una crescita così rilevante non solo non ha fatto crescere l’occupazione in valori assoluti, ma l’ha fatta diminuire in percentuale, dal 41.5% al 35.8% della popolazione (Maurizio Pallante – La Felicità Sostenibile – Rizzoli 2009). Ma dove voglio andare a parare con questo ragionamento pindarico tra sprechi alimentari, consumi, PIL e disoccupazione? E’ la dimostrazione di quello che stiamo vivendo in questo periodo: il fallimento del sistema capitalista-consumistico della produttività a tutti i costi. Consumate! Comprate cose inutili, buttate via quelle vecchie, andate al supermercato….e fate aumentare il PIL! Il PIL e l’economia finalizzata alla crescita hanno portato alla sovrapproduzione di beni, all’abbassamento delle remunerazioni, abbattimento di costi e salari, aumento dello spreco di risorse. Ma soprattutto, spostamento della ricchezza dai più ai pochi e, non meno importante, al peggioramento della qualità, sia dei beni che dello stile di vita. Tutto ciò grazie alla spinta al ricorso al credito che ha fatto indebitare le famiglie. Ci hanno “insegnato” a vivere al di sopra delle reali possibilità.

Per i politici contano solo i consumi. Molti imprenditori di sicuro rabbrividiscono a queste parole; “ma come?…bisogna produrre di meno?…comprare di meno?…. come facciamo profitto?… come creiamo posti di lavoro?” Bè finora il sistema capitalista-consumistico (così come quello comunista-statalista) ha prodotto benessere e occupazione solo nel breve termine (e a discapito della maggioranza della popolazione dei paesi sottosviluppati e sfruttati!). Ormai l’innovazione tecnologica e la standardizzazione dei prodotti (anche dei cibi industriali) permettono di aumentare sempre di più la produzione oraria di un bene (omologato, standard, e spesso privato della propria naturalezza o utilità) diminuendo drasticamente la manodopera e quindi anche i costi per le aziende. Risultato: mercati inondati di prodotti a basso costo da aziende che si scontrano a chi fa il prezzo più basso; così si arricchisce la Grande Distribuzione, a discapito dei piccoli produttori che soccombono. Di conseguenza si ottiene: taglio dei costi, disoccupazione e diminuzione della qualità dei prodotti. Unico vantaggio (effimero): il prezzo più basso dei beni di consumo, però a fronte di una scarsa qualità e ripercussioni sullo stile di vita e molto spesso sulla salute.

La possibile soluzione? A sentire politici ed economisti di tutto il mondo l’unica cantilena proposta è: “stimoli alla crescita, incentivi al consumo, indebitamento ecc. ecc.”….. ma pur continuando a stimolare questa economia ormai satura, a chi li vendiamo tutti questi prodotti in eccedenza e quindi inutili? Ai cinesi? Per battere la loro concorrenza dovremmo lavorare alle loro stesse condizioni (bassi salari, zero sicurezza, non rispetto delle norme ambientali ecc.), quindi tornare nel medioevo della storia industriale! E comunque non ce la faremmo mai, perché tra prodotti di largo consumo americani, europei, cinesi, indiani, potremmo riempire il mondo ed esportarli nello spazio a paghi 1 e prendi 3, se fosse possibile.

Il ruolo fondamentale delle piccole imprese. Ci sarebbe un’altra strada, quella suggerita da Serge Latouche, economista francese che ha teorizzato il modello della Decrescita: buttare via tutte le teorie fallite sulla produttività ad ogni costo e sfruttare le innovazioni tecnologiche per fare prodotti più utili e salutari; in modo da produrre meno, pagare il giusto, guadagnare in salute e remunerare i produttori. In tal modo un’azienda non deve essere costretta a ingigantirsi (indebitandosi pesantemente) per fabbricare tonnellate di prodotti che non sa come vendere; cioè il risultato di quello che ci insegnano nelle aule delle università: mi indebito, divento grande, risparmio sui costi delle materie prime, sfrutto le economie di scala e vendo a prezzo più basso. E ritorniamo lì, dove ci scontreremo con un altro che venderà ancora più pezzi a un prezzo più basso del mio, e io sarò fuori. Solo che la capacità di consumo della gente non è infinita.

E allora, qual’è la soluzione? Allora filiera corta, mercati e produttori locali, tante piccole aziende artigianali e quindi più occupazione; tutto questo non significa tornare indietro, non innovare, tornare alle lavorazioni manuali. In Italia le piccole e medie imprese rappresentano (forse rappresentavano?) la struttura portante del sistema economico e produttivo: su oltre 4,4 milioni di imprese, il 99,9% è, infatti, costituito da PMI; di queste, la quasi totalità (il 94,6%) rientra nella dimensione di micro impresa (con meno di 10 addetti), mentre le imprese di taglia media (da 50 a 249 addetti) sono appena lo 0,5% del totale (Elaborazioni su dati EUROSTAT, anno 2008). E il loro contributo in termini di occupazione è rilevante: l’81,7% degli addetti è, infatti, occupato nelle PMI (le micro imprese da sole occupano il 48% del totale degli addetti). Secondo i dati EUROSTAT tutta l’Europa ha una struttura fortemente incentrata sulle PMI: il 99,8% delle imprese europee ha meno di 249 addetti ed assorbe il 67,4% dell’occupazione; il 91,8% di esse ha meno di 10 addetti (dati 2008). La stessa Comunità Europea ha riconosciuto il ruolo centrale delle imprese di minore dimensione nell’ambito dell’economia europea, e nel 2008 ha emanato la Comunicazione “Pensare anzitutto in piccolo”, lo “Small Business Act” per l’Europa”, che promuove un articolato quadro di interventi con l’obiettivo di migliorare il contesto giuridico, economico ed amministrativo delle PMI nell’intera Ue. La UE vuole in pratica attuare il documento stilato nel 2010 “Europa 2020 – una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”, cioè promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.

La terza via, quella delle Comunità e dell’autoconsumo. Una certa parte d’Italia l’ha dimostrato da tempo: la forza trainante è la piccola media impresa artigianale che con i prodotti di qualità (non concorrenziali e non imitabili!) riesce a galleggiare sulle macerie che il “vecchio sistema” ci sta lasciando. E dalla mia piccola esperienza con le piccole imprese alimentari, posso testimoniare come nel lungo termine, il prodotto artigianale, talvolta innovativo (e la riscoperta della tradizione e delle peculiarità naturali è spesso un’innovazione!), permette di lavorare la quantità necessaria da vendere, con alta qualità, prezzo giusto e remunerativo: insomma piccoli, bravi e duraturi. Si chiama sviluppo sostenibile, si conserva la qualità, il territorio e l’occupazione. Vedi gli ipermercati che per 30 anni hanno fatto chiudere tante botteghe per dare lavoro a 800 euro al mese. Ora molti di quegli ipermercati in Italia (nonostante le dimensioni efficienti, prezzi bassi, le offerte e gli stipendi da ricatto) stanno chiudendo. Carrefour e altri marchi esteri si stanno ritirando dall’Italia, lasciando capannoni abbandonati, e gli ex dipendenti fuori a protestare, con buona pace dei finanziamenti pubblici ricevuti. In compenso, nei paesi e nelle città, stanno tornando a nascere negozi di prossimità e aziende agricole in filiera corta che riportano tanti giovani nell’agricoltura. Alla base di ciò è necessario un comportamento maggiormente consapevole dei consumatori, che in un certo senso, “aiutati” dalla recessione, consumeranno meno ma meglio, magari unendosi in gruppi di acquisto solidale (GAS). Questo quadro farà certamente soccombere le grandi aziende che fanno enormi volumi di produzione a costi bassi; ma come dimostrato, non sono le grandi aziende che creano il grosso dell’occupazione (al contrario di quello che politici, finanzieri e sindacalisti ci fanno credere). Questa sembra la strada, e quando questa crisi epocale spingerà le famiglie (come già sta succedendo anche in America) all’auto-produzione, a coltivare l’orto in città o sul balcone o a farsi il pane in casa, a comprare meno cibo ma con maggiore attenzione alla qualità e alla salute, allora ci accorgeremo di essere dentro al cambiamento.

(Fonte decrescita)

Comments: 2

  1. alessio 24 maggio 2013 at 22:12 Reply

    Sono stato molto contento di aver trovato questo sito. Voglio dire grazie per il vostro tempo per questa lettura meravigliosa! Io sicuramente mi sto godendo ogni post e ho già salvato il sito tra i segnalibri per non perdermi nulla!

  2. matteo 25 maggio 2013 at 23:33 Reply

    Behh io ho appena lasciato un commento sul mio Blog con link a questo post… anche per ringranziare pubblicamente i visitatori del blog… grazie ragazzi!

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